IL MIO PERCORSO DI VITA: DAL CANCRO A UN VIAGGIO A ZANZIBAR

LA SCOPERTA DELLA MIA MALATTIA

Anni fa mi ammalai di una brutta malattia, il cancro o detto il “bastardo”!

Correva l’inverno dell’anno 2005…. In quella particolare giornata non mi sentivo molto bene, mi sdraiai sul divano che si trova nel salotto di casa e per la prima volta in vita mia telefonai al mio medico di base, chiedendo di venirmi a visitare. Avevo febbre alta e non me la sentivo di uscire. Il mio seno era dolorante, dovuto al ciclo mestruale; nel cambiare posizione ne urtai uno involontariamente, causandomi del dolore. Mi accorsi di lui così, toccandomi con la mia mano, di una protuberanza. Prima di quel preciso istante, non ci avevo mai fatto caso. Quella grossa ciste non faceva male, neanche premendola. Si trovava in prossimità dell’ascella. Durante la visita, la mia dottoressa mi diagnosticò un’influenza virale. Ne approfittai della sua presenza, mostrandole quella specie di “palla” rotonda. Al suo tocco, mi disse subito che non mi voleva allarmare, ma che non le piaceva per niente. Mi prescrisse una mammografia di tipo RAO-B urgente.

L’appuntamento fu a distanza di un paio di giorni. Avevo ancora la febbre, ma ero agitata e mi recai ugualmente alla visita. Ci andai da sola, cercando di essere positiva. Non pensavo potesse capitare davvero a me. Non ero sicuramente preparata a un’imprevisto simile. La mammografia me la fece direttamente il primario e già da subito mi disse, con molta umanità, che era evidente fosse un tumore. Me lo mostrò sullo schermo e cercò di darmi forza. Io mi sentii mancare e, con la voce tremolante, chiesi cosa sarebbe accaduto da quel momento. Seguì l’esame con ago aspirato per essere certi. L’esito era positivo. Poi, la biopsia con relativo prelievo sanguigno, ma il dubbio era confermato ad ogni esame e la mia speranza andò a “morire”. Sono uscita dall’ospedale con le lacrime agli occhi. Piangevo camminando sola per la strada. Mi sentivo finita.

Dopo una settimana, mi trovavo già al reparto Day Hospital dell’oncologia di Trento a iniziare la prima chemioterapia. Dovevano cercare di ridurre quel nodulo grande ben quattro centimetri. Fortunatamente, non aveva creato metastasi prima di procedere all’intervento. Nel frattempo, al controllo del linfonodo sentinella sotto l’ascella, me ne tolsero quattro in anestesia locale. È un esame doloroso che conosce bene chi ci è passato. In qualche raro caso, il mio braccio si è gonfiato come una salsiccia, dovendo ricorrere al guanto elastico, ma i maasai hanno le mani curative (di questo ve ne parlerò in uno dei prossimi articoli). In svariate occasioni, mio marito è riuscito a curarmi con dei massaggi linfodrenanti e tutto è tornato alla normalità.

L’intervento

Giunto il momento dell’intervento, i medici optarono di operarmi in quadrantectomia, mantenendo il mio seno senza bisogno di sostituirlo con nessuna protesi. Mi è rimasta qualche cicatrice, ma di certo non ne è un problema: sono viva. Forse in passato avevo due mammelle anche troppo abbondanti. Ogni volta che cercavo un costume, mi ritrovavo con gli slip giganti e la parte superiore perfetta. Questo ne è un piccolo esempio della positività che sono riuscita a ricavarne dal mio percorso difficile. Chissà che non possa servire come spunto a qualche donna che potrebbe farne un problema. Ho conosciuto parecchie donne che si sono ammalate di depressione durante la cura del cancro. Non abbattetevi, con un esempio di guarigione, siamo in tanti.

A te che mi stai leggendo e stai combattendo, ti dico: non abbassare la guardia, lotta fino alla fine, vivi ogni istante nel miglior modo possibile. Ti abbraccio forte con tanto affetto in segno di solidarietà.

Alla oncologia di Trento dedico la mia grande stima e ammirazione. Ho trovato una bell’accoglienza e molta umanità. L’equipe medica che sorveglia questo reparto è molto preparata e ti segue con attenzione e delicatezza fino in fondo al tuo percorso e oltre. Non sono solo medici, ma persone con un grande cuore. Spero tanto che questo mio scritto arrivi anche a voi. Al mio traguardo va il vostro merito. Grazie!

Mi chiedevo cosa ne sarebbe stato della mia vita. Non sapevo se sarei riuscita a combattere questa terribile malattia che spaventa solo a pronunciarne il nome. Ormai ne ero dentro fino al collo e mi misi in gioco senza nemmeno pensarci due volte. Solo durante questa orribile esperienza ho elaborato quanto male crea l’impotenza che vive chi ti sta vicino, realizzando che hai un cancro. Ricorderò per sempre la reazione dei miei poveri genitori e della mia più cara amica d’infanzia quando dissi: “HO UN CANCRO”. Con Giovanna abbiamo un bellissimo legame d’amicizia, quasi quanto due sorelle. Siamo cresciute insieme, portando con noi dei ricordi e delle confidenze di vita. Mi è stata sempre vicina, aiutandomi a superare anche questo lungo cammino. Grazie di esistere, ti voglio bene.

Marlen, la mia dolce nipotina vedendomi spesso con la bandana in testa, mi imitava indossandola e portandola anche lei, forse per la mia “nanetta” era moda. Mia sorella la riprendeva credendo che ci rimanessi male, a me invece dava allegria. Era troppo spontanea nella sua spensieratezza. Si infilava sotto le coperte con me e si era inventata una canzoncina che intonava ogni qualvolta mi vedeva. L’aveva intitolata “Testa Pelata”. Quanto rideva mentre cantava! Mi dava una carica incredibile la sua solarità. Mi vedeva sempre a letto e non aveva nemmeno tre anni.

I miei genitori vennero a mancare poco dopo la mia guarigione (correva l’anno 2012). Morirono a distanza di cinque mesi l’uno dall’altro, sembrava si fossero messi d’accordo. Mia mamma aveva appena compiuto sessant’anni e morì di cancro. “Ecco da dove arrivava la familiarità che gli oncologi chiedevano dopo esserne stata colpita una seconda volta”. Mi ritrovavo ancora a frequentare lo stesso reparto, gli stessi medici avevano in cura mia mamma, mi guardavano con pietà. Mio padre lo trovai a casa morto d’infarto a soli 64 anni al mio rientro dal lavoro. Il giorno stesso mi comunicarono che a mia madre rimanevano cinque mesi di vita. Ma proseguiamo con il tema dell’articolo, non voglio soffermarmi sulla morte dei miei genitori… Fa tanto male ritornare a ricordare…

Altri amici, zii e parenti hanno usato la classica scusante pensando di eliminare un loro problema, chiedevano notizie a mia madre, riferivano che non avevano il coraggio di venire a trovarmi e di vedere come ero “ridotta”. Non fatelo mai. A soffrire è chi sta male. Le cure sono durate quasi cinque anni e nel mezzo si è presentato per ben due volte, guarita da un seno non avevo ancora finito come credevo. Dopo sei mesi mi sono presentata al primo controllo e mi diagnosticarono il secondo cancro. Ha colpito il mio seno destro e dover ricominciare tutto l’iter da capo è stata una sfida davvero pesante prima di riuscire ad accettare e ringoiare questo boccone amaro. Dovevo nuovamente scalare quella lunga e faticosa montagna. I due cancri mi hanno rubato tanti anni di vita che non potrò mai più riavere indietro.

LE CHEMIOTERAPIE

Durante le chemioterapie ero costretta a letto cinque giorni su sette. Passavo le giornate nella mia stanza. L’appuntamento al Day Hospital ad ogni nuova terapia era una volta la settimana, e ricordo ancora bene quei terribili giovedì. Verso le 7.30 del mattino, mia madre veniva a prendermi in macchina e mi accompagnava in ospedale, tenendomi compagnia per tutta la giornata. Si iniziava con un prelievo di sangue e, aspettando i risultati, speravo di essere idonea alla terapia. A volte mi è capitato di non esserlo. Mi comunicavano che avrei dovuto saltare il ciclo di chemioterapia fino a quando le piastrine non tornavano alla normalità. Il mio corpo era senza globuli bianchi, il che significa senza anticorpi. Ci restavo molto male, perché si doveva posticipare di settimane il traguardo per mettere fine a tutto questo incubo.

Mi avevano posizionato un catetere venoso proprio sopra il petto. Si tratta di un tubicino in plastica lungo e sottile che si introduce sotto la pelle in una vena vicino al cuore, utile per prelievi frequenti e comodo durante le terapie senza dovermi continuamente bucare la pelle con l’ago. Successivamente, veniva coperto da un grande cerotto. È stato molto complicato tenerlo pulito e disinfettato, era mio compito. Dovevo stare attenta persino durante la doccia per evitare il rischio di contaminazione con l’acqua. Purtroppo, in una occasione è successo, ho dovuto rimuoverlo, aspettare che l’infezione passasse (durata settimane) e successivamente riposizionarlo attraverso un piccolo intervento in sala operatoria.

Non ricordo quante erano le stanze del reparto Day Hospital, ma passando nel corridoio le vedevo sempre piene di persone che facevano la chemioterapia; questo ricordo rimarrà impresso nella mia memoria. Eravamo almeno cinque persone per camera, di tutte le età. Ci sistemavamo comodamente su delle poltrone elettriche, e l’infermiera ci attaccava la prima “bottiglietta” di cortisone. A volte, potevano esserci una o più altre bottiglie contenenti una miscela personalizzata di farmaci. L’infusione durava molte ore, poiché il liquido deve entrare in vena a gocce molto lente per evitare bruciore e permettere ai farmaci di dare effetto.

Ciò che mi irritava in quell’istante erano le conversazioni che udivo dai miei compagni di stanza: parlavano sempre e solo di dolori, del sapore di ferro che sentivano in bocca, di quale cibo rifiutavano dopo il trattamento e di tutte le controindicazioni che già conoscevo benissimo, visto che rientravo a casa verso sera già dolorante, ma pronta a riaffrontare i mali fisici che mi procurava la chemio. Dopo sei giorni finalmente riuscivo ad appoggiare i piedi al pavimento e ad alzarmi. Credevo di sentirmi bene e me ne “scappavo” a lavorare, da quanto ero stanca di stare stesa a letto e chiusa in casa.

Mio padre mi chiedeva dove prendevo la forza, non avevo una risposta da dare, non lo sapevo nemmeno io. Vinceva il bisogno di sentirmi utile passando la giornata in ufficio con i miei colleghi. Peccato che fossimo già a mercoledì, il giorno seguente mi attendeva l’appuntamento di un altro ciclo di chemioterapia.

Passavo le giornate a guardare il soffitto, le notti estive ad annaffiare le piante sul balcone. Alle quattro del mattino, mi recavo spesso in macchina al bar adiacente a casa mia, il Bar Bazar, l’unico aperto a quell’ora. D’inverno, le temperature erano molto rigide in Trentino, ma le ore per me scorrevano troppo lentamente. Non riuscivo ad attendere le prime luci dell’alba sdraiata. Scambiavo due parole con Betty, la titolare, mi dava forza e compagnia. Sorridevo ascoltando le chiacchiere dei ragazzi che ancora stavano in giro dalla sera prima, come facevo anch’io con la mia amica Giovanna quando stavo bene e avevo voglia di divertirmi. Leggevo il giornale locale. Non sempre avevo voglia di bere un caffè o un cappuccino, a volte avevo la nausea. Ormai si sapeva cosa ci facevo in quel locale a quell’ora, e rimarrà sempre nei miei ricordi più cari. Grazie, Betty. Ti abbraccio.

Mi sentivo sempre molto stanca, non avevo voglia di niente, non riuscivo né a leggere né a guardare la televisione. La concentrazione non c’era. Il maledetto mix di “tonnellate” di farmaci mescolati in una sola flebo stava facendo il suo corso nel mio corpo. Quanto male sono stata non lo potrò mai dimenticare. Quando uscivo dovevo fare attenzione a tutto, mi sembrava di avere un mattone legato ad ogni piede. Nel cambiarmi e vestirmi sudavo dalla fatica e le mie unghie si stavano annerendo. Ai pollici delle mani e alle piante dei miei piedi appariva un formicolio continuo che tutt’oggi mi infastidisce se capita che cammino scalza. I crampi alla muscolatura del mio corpo facevano molto male. Avevo due parrucche simili al colore e al taglio che usavo prima di perdere tutti i capelli. Giovanna, da brava parrucchiera, le portava spesso con sé nel suo salone. Le lavava e le pettinava facendo in modo che quando le avrei indossate mi rendessero carina e curata.

I medici mi sconsigliavano di frequentare locali affollati (sarei stata in pericolo serio da germi e batteri), non potevo prendere il sole, niente attività fisica che avrebbe aiutato a stimolare le maledette cellule tumorali, e quando di rado uscivo con le mie più care amiche per una pizza, mi stancavo facilmente grazie all’effetto di qualche farmaco che dovevo ingerire anche nei giorni successivi alla terapia, al rientro a casa iniziava la nausea o il vomito.

Avevo un piccolo cagnolino, un chihuahua di nome Spillo, e ci siamo tenuti compagnia per sedici anni. È morto di vecchiaia e mi è dispiaciuto moltissimo. Era parte di una vita vissuta insieme. Alcune giornate credevo di stare bene e avevo bisogno di uscire a prendere un po’ d’aria e fare una passeggiata. Ne approfittavo per portare Spillo a fare i suoi bisogni. Dopo pochi metri a piedi, dovevo telefonare a mio padre per chiedergli se poteva venire a prendermi, in quanto sentivo che le mie gambe non mi reggevano e non avrebbero retto il ritorno a casa.

Quando stavo male, pensavo al giorno in cui sarei guarita. Avevo voglia di vivere e tornare alla mia normalità. Volevo partire da sola in un viaggio che sognavo da sempre: l’Africa! Iniziai a sfogliare qualche catalogo, ma io volevo l’Africa vera e non un resort. A casa mia, nessuno era d’accordo. Mi dicevano che era troppo pericoloso, che non avevo abbastanza anticorpi per poter intraprendere un viaggio simile. Insomma, erano tutti preoccupati, ma io sapevo che non avrei abbandonato il mio obiettivo di viaggio.

Finalmente arrivò il giorno tanto atteso: mi dissero che avevo terminato il ciclo di chemioterapie e che, a distanza di pochi mesi, avrei dovuto iniziare un ciclo di sedute con la radioterapia. Confidai ai miei oncologi che mi stava “balenando” l’idea di farmi un viaggio in Africa da sola. Mi risposero che ero forte e che sicuramente non mi sarei contagiata da niente grazie al mio spirito interiore, e che dovevo solo fare attenzione alla cura dell’igiene personale.

Sono corsa a casa, ho acceso il computer e cercato un viaggio tra Madagascar e Etiopia, ma alla fine ho optato per un viaggio a Zanzibar (Tanzania) e un soggiorno in un resort, così da togliere la preoccupazione a chi mi stava vicino.

LA MIA SECONDA VITA IN SAVANA

Da quella vacanza in Tanzania iniziò quella che io ho denominato la mia seconda vita, piena di soddisfazioni e serenità. Viaggiare a Zanzibar e volutamente da sola doveva servirmi a staccare davvero la spina dai miei troppi anni sfortunati, e così fu, obbiettivo raggiunto!!

Sulla spiaggia, ho iniziato a fare conoscenze già dal primo giorno. Alcuni maasai si avvicinavano e mi parlavano. Ero curiosa di conoscere la loro vita da maasai. Mi facevano qualche complimento (ed io mi domandavo come potevo piacere essendo ancora una palla di cortisone, con le palpebre così gonfie da non notare nemmeno il colore dei miei occhi).

Mi sentivo carica e piena di voglia di ricominciare a vivere. Ero abbronzata come non mi vedevo da anni e finalmente i miei capelli iniziavano a crescere. Giovanna mi regalò la prima tinta bionda. Le mie ciglia erano spuntate e potevo colorarle con il rimmel. Iniziavo a vedermi carina e a sentirmi nuovamente una donna. Avevo 40 anni!

In particolare, legai con dei Maasai che mi invitarono a casa loro. Ero curiosa e così accettai l’invito, partendo qualche mese dopo con destinazione villaggio Maasai nella savana della Tanzania. Fu lì che conobbi il mio attuale marito Maasai. Ci conosciamo dal 2009, ci siamo fidanzati nell’anno 2013 e ci siamo sposati nel gennaio 2015. Se vuoi, trovi il racconto della nostra storia qui: IL RACCONTO DI UN MAASAI E UN’ITALIANA.

Vivendo insieme al popolo maasai ho scoperto una dimensione diversa; riesco ad esprimere la persona che sono. Da quando ho iniziato a frequentare la savana e i suoi abitanti, me ne sono innamorata sin da subito e ho sempre detto a tutti i miei amici e conoscenti che avrei voluto viverci. Quando ho conosciuto mio marito, avrei voluto trasferirmi da subito con lui e la nuova famiglia maasai. Ma sapevo che non sarebbe stato possibile; è una scelta da ponderare bene e con il tempo. Inoltre, volevo capire se questo grande passo poteva avere delle fondamenta sane prima di intraprendere questa nuova avventura.

ADESSO CHIEDIMI SE SONO FELICE!

Sì, ora sono veramente felice, come credo di non essere mai stata in tutta la mia vita. E inoltre… Cosa altro potrebbe succedermi che sia peggiore di ciò che ho già sopportato?

Sono fisicamente in buona salute, ho riacquistato le mie forze e mi presento per controlli regolari, sebbene con molta ansia e paura. Vivo per la maggior parte dell’anno nella savana e mio marito è sempre al mio fianco. Abbiamo realizzato il nostro sogno con una nuova esperienza: accompagniamo i turisti ad esplorare la savana, approfittando dell’opportunità di farli soggiornare nella nostra accogliente casa nel villaggio Maasai, nel centro del nostro villaggio. William, mio marito, funge da guida e traduttore, spiegando le usanze locali, le tradizioni e organizzando escursioni a piedi o in moto. Io lo aiuto occupandomi della casa e dell’igiene, assicurando che vi sentiate coccolati e a vostro agio anche nel bel mezzo della natura selvaggia. Gestisco il nostro blog e i social media, descrivendo tutto ciò che ancora non conoscete sulla vita e la routine quotidiana delle tribù che vivono nella savana della Tanzania. La nostra famiglia Maasai lavora insieme a noi e ad altri collaboratori locali. Involontariamente, abbiamo innescato una catena lavorativa che permette a molti di vivere dignitosamente grazie a un reddito economico.

DAL GENNAIO 2023 MI SONO TRASFERITA DEFINITIVAMETE A VIVERE IN SAVANA CON LA MIA GRANDE FAMIGLIA MAASAI.

Chi avrebbe mai pensato che questo viaggio a Zanzibar mi cambiasse la vita? Sin dal primo istante in cui ho messo piede sull’isola, ho avvertito un’energia unica e avvolgente. Le spiagge di sabbia bianca, lambite da acque turchesi cristalline, si estendevano all’orizzonte, invitandomi a esplorarle e a scoprire i tesori nascosti di questa meravigliosa destinazione.

Durante le mie giornate trascorse a Zanzibar, ho avuto l’opportunità di immergermi nella cultura locale, assaggiando i sapori autentici della cucina swahili e interagendo con la comunità locale. I mercati vivaci e colorati erano un tripudio per i sensi, con spezie esotiche che danzavano nell’aria e artigianato tradizionale che abbelliva le bancarelle.

Ma è stata l’incontro con le persone di Zanzibar che ha reso veramente speciale questo viaggio. La loro gentilezza, calore e ospitalità mi hanno fatto sentire a casa, facendomi capire che il vero tesoro dell’isola risiede nelle persone che la abitano. Ho trascorso indimenticabili serate ad ascoltare storie e leggende tradizionali intorno ai falò sulla spiaggia, imparando la saggezza tramandata di generazione in generazione.

E poi c’è Stone Town, la città vecchia di Zanzibar, con le sue stradine labirintiche e gli edifici storici dall’architettura affascinante. Ho passeggiato tra i mercati delle spezie, visitato le antiche moschee e perso l’anima tra la vivace vita di strada. Ogni angolo di Stone Town è intriso di storia e cultura, e trasmette un senso di mistero e avventura che cattura l’immaginazione.

Quando ho lasciato Zanzibar, ho portato via con me non solo ricordi indelebili, ma anche un profondo senso di gratitudine. Questo viaggio mi ha insegnato che lontano dalle comodità della vita quotidiana possiamo trovare una bellezza autentica e connessione umana che va al di là delle differenze culturali. Zanzibar mi ha aperto gli occhi e il cuore, lasciandomi desideroso di nuove scoperte e avventure nel mondo che mi circonda.

Passata la tempesta arriva sempre il sereno e dopo tanto seminato, stiamo finalmente raccogliendo. Guarda: LA NOSTRA CASA IN SAVANA

La vita è una sola vivila al meglio, rincorri i tuoi sogni e credici fino in fondo poiché a volte sono realizzabili. Tutti i problemi del mondo si possono risolvere ma alla salute non sempre c’è rimedio, pensaci!

Grazie di averci dedicato del tempo nella lettura, speriamo che l’articolo ti sia piaciuto.

Ti aspettiamo da “mama savana” in mezzo ai maasai.

Ciao, con affetto Cristina e William

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8 pensieri su “IL MIO PERCORSO DI VITA: DAL CANCRO A UN VIAGGIO A ZANZIBAR

  1. Amy

    Grazie per il tuo racconto, Cristina. Non è sicuramente facile parlare di un male così grande, ma la tua testimonianza ricorda a chiunque legga che un modo per uscire dal baratro esiste. Tu hai trovato l’Africa e l’amore, hai lottato come una leonessa, e oggi diffondi un messaggio positivo. Sei pazzesca! E Willy, gentile e premuroso, è l’uomo che una donna meravigliosa come te merita davvero.
    Complimenti!!!

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  2. Rosella D'Avola

    Ho letto il tuo percorso di vita e credo che compiere certe scelte richieda coraggio. Circa due mesi fa sono stata a Zanzibar con mia figlia è i suoi bimbi e lei si è innamorata dell’Africa e del popolo Masai. Sono un po’ preoccupata e vorrei poterle scrivere in privato per aver maggiori informazioni

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    1. Carissima Rosella la ringrazio di avermi scritto ma detto sinceramente non saprei come aiutarla, i maasai sono un bel popolo ma sono tanti, la Tanzania è grande, non è detto che li conosca e non conoscendo nemmeno voi non mi sarebbe semplice consigliarvi pur non conoscendo la situazione. Se vorrà informazioni inerenti il nostro viaggio e se volesse venire a trovarci non esiti a contattarci. Buon pomeriggio da Cristina e William

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  3. Francesca

    Ciao Cristina,ho letto.il tuo racconto e mi ha molto emozionata e in un certo senso mi ci sono rivista..grazie per la chiacchierata di ieri al telefono..a volte condividere le stesse esperienze da una carezza al cuore..tu abbraccio Francesca

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